Kevin Costner si è giocato di nuovo tutto (o meglio 38 milioni di dollari) per realizzare Horizon, la saga western che sognava da 36 anni

Per girare la sua epica western, ha investito i suoi soldi e anche una proprietà. Costner rivela cosa c'era in gioco con Horizon e perché ha dovuto lasciare Yellowstone pur di portare a termine questo progetto
Kevin Costner racconta perch ha investito 38 milioni di dollari sulla saga western Horizon e ha lasciato Yellowstone
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A volte Kevin Costner immagina di guardare sé stesso in un film su Kevin Costner. Se ne sta seduto al cinema; è buio e si gode lo spettacolo come abbiamo fatto noi nel corso degli anni, facendo il tifo per il proprio successo. Durante i momenti di sconforto o di stress, pensa: «Devo essere il mio film». Nei western, il genere preferito da Costner, l’eroe è sempre in sella pronto a combattere e nonostante sia in condizioni di inferiorità numerica e di armi, alla fine ne esce vittorioso. Spesso è proprio questo il suo modo di vedere sé stesso. Come è noto, la sua prima grande occasione da attore è stata la partecipazione al film Il grande freddo del 1983; il problema è che, dopo le riprese, tutte le scene in cui doveva apparire sono state tagliate. Prima di essere escluso dal montaggio. «Tutti i miei amici dicevano: “Kevin, sei in quel film. Devi farti pubblicità. Dovresti cavalcare l’onda”», mi ha raccontato. «E io ho risposto: “No. Sarà una notizia più interessante una volta che avrò realizzato quanto so di dover fare”».

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Da sempre Costner preferisce seguire le vie più difficili. Quando Ron Shelton ha deciso di scritturarlo per Bull Durham - Un gioco a tre mani del 1988, ha cercato di affidargli subito la parte, ma lui ha insistito per sostenere comunque un provino. «Così dopo aver pranzato siamo andati alle gabbie di battuta di Sepulveda con un mucchio di monetine», mi ha svelato Shelton. «Abbiamo messo le monetine lì dentro e Kevin ha realizzato dei line drive sia con la mano destra sia con la sinistra. Poi, abbiamo provato delle prese con la pallina da baseball nel parcheggio. Le ragazze gli passavano accanto senza sapere chi fosse. Tre mesi dopo, lo avrebbero saputo».

Negli anni successivi a Bull Durham - Un gioco a tre mani, diventò una delle più grandi star di Hollywood e decise di sfruttare tutta la popolarità conquistata per produrre, dirigere e recitare in un film che la maggior parte degli studios non voleva: Balla coi lupi. «Mi è stata offerta l’opportunità di fare Caccia a Ottobre Rosso con un compenso superiore a qualsiasi altra cifra da me mai vista», ha sottolineato Costner. «Mi sono sentito come Gollum con l’anello. Ho pensato: “Oh mio Dio, devo prendere il tesoro”. Però, mi ero ripromesso di realizzare quel progetto. Dovevo guardare il mio film». Quando Balla coi Lupi uscì, nel 1990, fu candidato a 12 premi Oscar e ne vinse sette, tra cui miglior film e miglior regia.

Oggi Costner ha 69 anni. Nell’ultimo decennio ha vissuto una sorta di rinascita, grazie a una serie di interpretazioni significative e carismatiche nei film e alla partecipazione a Yellowstone, una delle serie più popolari della televisione. Altri attori potrebbero accontentarsi di una tale fortuna a fine carriera, ma non sono Kevin Costner. Un uomo che è portato a perseguire un’ossessione, a prescindere da quanto possa costargli. «Sono così grato di non aver mai visto un UFO», ha affermato. «Sono una persona abbastanza sana di mente, anche se qualcuno potrebbe ipotizzare il contrario. Cosa succede però una volta che ne vedi uno? Non puoi più lasciare perdere».

Una di queste ossessioni è un western chiamato Horizon che Costner, in qualità di co-sceneggiatore, regista e protagonista, desidera realizzare dal 1988. Negli ultimi 36 anni, la trama si è evoluta, passando dall’essere una storia su due personaggi principali a diventare un vasto ritratto panoramico della fondazione di una città chiamata Horizon durante un capitolo particolarmente sanguinoso dell’espansione occidentale americana. Costner, comunque, non ha mai rinunciato all’idea. Nel 2003 stava per realizzarla con la Disney, ma ci fu un disaccordo sul budget di 5 milioni di dollari. E così lui, mai disposto a scendere a compromessi su qualcosa che considera importante, ha lasciato perdere.

Poi, nel 2012, ha ripreso in mano lo script e insieme allo sceneggiatore e autore Jon Baird, lo ha trasformato in quattro copioni. «L’aspetto ironico, o forse meglio dire tipico di me», ha commentato Costner, «è che se la mia psichiatra mi avesse visto, avrebbe detto: “Kevin, fammi capire bene: nessuno voleva produrre il primo, giusto? Almeno quello quando lo hai finito, non lo volevano fare?”. Io rispondo: “Sì”. E lei: “Perché allora ne hai scritti quattro? Cosa ti ha spinto farlo?” E ipotizzo che la mia risposta sarebbe stata: “Perché ci credo”. E a quel punto penso che avrebbe insistito: “Sì, ma nessuno ne voleva uno e tu ne hai preparati quattro”, come se prima non l’avessi ascoltata. E non avrei avuto argomenti a mio discapito, se non il fatto che la storia per me continuava a migliorare».

Se a Hollywood nessuno si era impegnato a girarne uno, figurati a farne quattro. Così, qualche anno dopo, Costner ha deciso di autofinanziarsi con l’aiuto di due investitori esterni di cui non ha voluto rivelare il nome. Di recente, anche Warner Bros. è salita a bordo per i primi due capitoli occupandosi della distribuzione nelle sale. Le informazioni trapelate sulla stampa sono state molto esplicite su quanto Costner si sia messo in gioco. «Dicono che ho investito 20 milioni di dollari di tasca mia», mi ha detto. «Non è vero, ora sono 38. Questa è la verità, la cifra reale».

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Nell’estate del 2022, tra le vaste terre selvagge dello Utah, ancora prima di iniziare la produzione di Horizon: An American Saga - Capitolo 1, ha dovuto affrontare alcune difficoltà. Nel 2021 aveva perso entrambi i genitori. Non molto tempo dopo, aveva iniziato ad avere problemi a concordare un programma di riprese con la produzione di Yellowstone. Questioni che alla fine si sono trasformate in una disputa contrattuale, una controversia finora limitata al contradditorio a mezzo stampa tra Costner e il creatore della serie, Taylor Sheridan, e le case di produzione Paramount e 101 Studios. L’anno scorso, Christine Baumgartner, moglie di Costner da 18 anni, ha chiesto il divorzio. In qualche maniera, però, lui ha trovato in poco tempo il modo di realizzare non uno, bensì due film di Horizon. Presto, insieme a Warner Bros., si imbarcherà in uno spericolato e grandioso esperimento, mai tentato prima: distribuire entrambi i film in un’unica estate. Horizon: An American Saga - Capitolo 1 arriverà nelle sale a giugno, seguito dal Capitolo 2 ad agosto.

«Sono accadute molte cose», mi ha detto Costner in primavera nella casa vicino a Santa Barbara, in California, dove ha cresciuto i tre più piccoli dei suoi sette figli. Era, ancora una volta, seduto nella sua immaginaria sala cinematografica. «In questo momento mi sto guardando al buio e dico: “Hai intenzione di alzarti e finire l’opera? Alzati. Io sono il pubblico. Alzati, Kevin. Alzati, cazzo, affronta questo impegno, trova ogni giorno la gioia di vedere i tuoi figli giocare mentre sei qui e poi fatti il culo per chiudere il progetto”».


Nell’agosto del 2022, appena sono iniziate le riprese del primo Horizon nei pressi di Moab, nello Utah, tra una serie di pareti rocciose rosse lungo un fiume melmoso, la gente sveniva per il caldo; mesi dopo, a novembre, quando ho visitato il set, l’inverno era già alle porte e Costner lottava nel tentativo di terminare la produzione prima che arrivasse la neve. In una gelida mattina, la troupe era radunata sul Mount Peale, nella catena di La Sal, vicino a un campo base raggiungibile dopo aver attraversato una strada sterrata che si snodava tra bestiame al pascolo, sterpaglie, pini e poi pioppi bianchi e spettrali, con la neve pronta ad apparire sul terreno non appena superati i 2400 metri. In un boschetto fangoso, erano ammassati camion, furgoni e camioncini per il catering; poco oltre c’era un piccolo costone, affacciato su una verdeggiante vallata, che Costner riteneva perfetto per la scena da girare tra il suo personaggio, Hayes Ellison, e una donna in fuga, Marigold, interpretata da Abbey Lee.

Questo angolo del paese, nella parte orientale dello Utah, è il territorio di John Wayne. Qui sono stati girati Rio Bravo e Sentieri Selvaggi, ma anche Thelma & Louise e la scena iniziale di Mission: Impossible 2 in cui Tom Cruise si lancia in un’arrampicata solitaria, un free-solo su una parete di roccia rossa. Lo Utah, tuttavia, è passato di moda come location cinematografica perché, a differenza del New Mexico o della Georgia e della California, ci sono meno studi o troupe locali. Costner vuole porre rimedio a tale situazione con Territory, uno studio che sta aiutando a costruire nella zona. Al momento, è ancora necessario fare arrivare un sacco di gente da altre parti. I produttori gli hanno chiesto: «Per favore, non fare una cosa del genere». Ma lui non ha potuto tirarsi indietro. «Quando scopro un posto così, non posso farmelo scappare. Mi entra dentro». La londinese Sienna Miller, una delle star di Horizon, mi ha raccontato che quando è stata scritturata per la parte, Costner le ha detto: «Ti mostrerò un’America che hai solo sognato». (Alla domanda se Costner parlasse sempre in quel modo, lei ha risposto: «Sì, è così che si esprime. Non ha mai trascorso del tempo con lui?»).

Howard Kaplan, uno dei produttori del film, era in piedi fuori dalla roulotte di Costner. «È roba da John Ford», ha dichiarato, scuotendo la testa. C’erano delle sedie in cerchio per socializzare, un secchio di plastica con la scritta “Spray per orsi” e una modesta folla di persone bisognose di risposte in piedi, a una distanza rispettosa seppur ravvicinata. Alcune notti Costner non si preoccupava nemmeno di scendere dalla montagna, ha ricordato Kaplan. Dormiva nella roulotte, faceva il barbecue fuori e guardava le stelle. «Continuavo a sognare il film», mi ha confidato più tardi.

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Costner è sbucato fuori e si è incamminato con decisione verso il tratto di roccia che era stato preparato a fare da sfondo alla scena in cui Hayes e Marigold si fermano per la notte dopo esser sfuggiti ai cattivi, e discutono mentre si preparano a dormire. Costner e Lee, dai capelli dorati nella luce autunnale, hanno iniziato a provare e a memorizzare la scena. L’attore e regista ripeteva le sue battute: «Non stai cogliendo appieno la situazione, Mari», recitò a Lee, cercando di spiegare il pericolo che stavano ancora correndo. All’improvviso ha fatto una pausa. «Riusciamo a farne una senza brusii?», esclamò severo in direzione della troupe. «Vi si sente». L’attrice Octavia Spencer che ha lavorato con lui due volte, in Black or White del 2014 e nel film Il diritto di contare (Hidden Figures) del 2016, mi ha riferito che, secondo la sua personale esperienza, gli altri attori e le troupe tendevano ad apprezzare la collaborazione con Costner «perché si presenta puntuale, pronto a lavorare. È un uomo d’affari quando è sul set, si preoccupa che funzioni ogni cosa, si va avanti e la troupe non sta seduta ad aspettare ore senza fare nulla. Si lavora».

Finalmente soddisfatto, Costner mi ha fatto cenno di avvicinarmi mentre sistemavano le telecamere. Un assistente gli ha consegnato un raccoglitore bianco con il copione e lui ha rivisto le sue battute mentre chiacchieravamo. «Non preoccuparti», mi ha rassicurato quando gli ho chiesto se volesse prepararsi in pace. «In caso contrario, ti direi semplicemente di andare a farti fottere». A distanza, sembrava un po’ segnato dalle intemperie, un altro pezzo di granito americano sul fianco della collina. Da vicino assomigliava in modo straordinario al ragazzo del primo film in cui l’ho visto, Senza via di scampo del 1987: occhi penetranti, capaci di brillare un po’ a dispetto della grinta. «Stiamo cercando di tenere insieme tante cose diverse, in un momento delicato», ha spiegato.

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Ogni decisione che prendeva aveva implicazioni finanziarie personali. «È una specie di film indipendente», mi ha confessato, mentre stava ancora studiando la sceneggiatura. «Io e mia moglie sapevamo che l’avremmo finanziato. Abbiamo appena ipotecato una proprietà, un terreno sulla spiaggia a Santa Barbara. Quattro ettari. Le ho detto: “È un buon affare”. E lei ha risposto: “Sì, un altro e siamo in bancarotta”».

Il direttore della fotografia di Horizon, J. Michael Muro, fece segno che erano pronti a girare. Costner è andato a prender posizione. La cosa notevole, dopo, è stato il poco che ha fatto. Fin dall’inizio della sua carriera, ha avuto la capacità di stare davanti alla macchina da presa senza fare praticamente niente. Eppure, la telecamera riprende... qualcosa. Agli esordi era una sorta di malinconia, o di rabbia repressa, o di malizia malcelata; più di recente, si è specializzato nell’interpretare uomini di grandissima esperienza e competenza, un po’ stanchi, che hanno un compito da portare a termine, indipendentemente dalla loro volontà. Quello che si vede, guardandolo recitare a pochi metri di distanza, non è affatto nulla. Si fida semplicemente del fatto che la macchina da presa lo sappia cogliere. «Tutti pensavano che Brando facesse poco, ma in realtà era il contrario», mi ha fatto notare Costner. «Non mi sto paragonando a Brando, ma se lo osservi, fa molte cose. Si muove appena con le mani. Solo un po’. Però è tanta roba». Shelton ha paragonato Costner a Spencer Tracy, menzionando la compagna di lunga data di Tracy: «Katharine Hepburn raccontava che, anche se erano amanti, non riusciva mai a capire quando veniva detto ‘Azione’ perché la sua recitazione fluiva dentro e fuori la scena, e non sapevi mai quando stava seguendo un copione o era semplicemente sé stesso. Kevin, in tal senso, è naturale». Miller ha raccontato che a volte, quando Costner dirigeva, il cast si riuniva solo per guardarlo mentre si muoveva davanti alla macchina da presa e spostava gli oggetti di scena: «Indossava il suo doppio denim e camminava davanti all’obiettivo per spostare un posacenere e lo schermo si incendiava. Stavamo tutti seduti intorno al monitor, sorridendo».

Costner ha interpretato molti ruoli nel corso degli anni: giocatori di football, dirigenti, padri saggi, ma in qualità di regista (Horizon è il suo quarto film, dopo Balla coi lupi, L’uomo del giorno dopo e Terra di confine - Open Range), torna continuamente alla frontiera americana, dove ognuno nasconde un segreto e non si può mai dire di conoscere davvero qualcuno. «Sono affascinato dalle interazioni tra le persone in assenza di regole e leggi, da come ci si comporta in una situazione di estrema libertà», ha osservato Costner. «Ed è un modo davvero interessante di misurarsi con il buio. Chi penso di essere in una simile situazione? Molte persone rispondono: “Beh, sono il fottuto eroe”. E ti viene da replicare: “Davvero? Ne sei sicuro?”».

La troupe si è fermata per il pranzo e poi ha ricominciato con le riprese un po’ più in alto sulla montagna, in una baita costruita appositamente come casa della famiglia Sykes, i cattivi del primo film. Costner, che si era tolto gli abiti del suo personaggio per indossare un cappotto nero a sbuffo, jeans blu abbinati a un berretto dello stesso colore e stivali giganti, aveva intenzione di dirigere una scena in cui il corpo esanime di uno dei fratelli Sykes viene riportato nella casa di famiglia. Due uomini appena arrivati, amici di Costner, guardavano, indossando una felpa crewneck Under Armour e scarpe Oxford, nonostante le condizioni del terreno. La neve appena caduta intorno alla casa si era già trasformata in un metro di fango fradicio e Derek Hill, lo scenografo e collaboratore di lunga data di Costner, era sconvolto: avrebbero dovuto aspettare un altro giorno di nevicate per girare gli esterni della baita. Nel frattempo, Hill ha chiesto alla propria squadra di stendere dei tappetini di gomma su cui gli attori potessero stare in piedi, in modo da non sprofondare ulteriormente nella melma.

Abiti Brunello Cucinelli, occhiali da sole Jacques Marie Mage, orologio vintage Foundwell, collana a catena e collana con pendente (a sinistra) David Yurman, collana con pendente (a destra) Eli Halili

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Sulla veranda c’erano gli attori impegnati a interpretare la famiglia Sykes. Costner si è occupato di come un sudario di tela coprisse per intero il figlio morto, disteso all’interno di un carro di legno. «Non credo che tu debba tirare giù questa copertura finché non lo desideri», ha detto a Dale Dickey, l’attrice che impersona la signora Sykes. «Sta a te decidere. Dipende da ciò che senti».

Costner ha filmato gli attori mentre facevano una prova: i genitori che uscivano per vedere il figlio, il fratello costretto a spiegare cosa era successo. Alla fine, ha riunito il cast intorno al monitor all’interno della baita per rivedere la scena. «Vi mostrerò come si creano i momenti memorabili», ha affermato. Mentre il filmato veniva riprodotto, ha fornito delle indicazioni a Jimmy Muro. «Non dobbiamo retrocedere, Jim», ha detto al suo direttore della fotografia, un veterano attento ai progetti di Costner a partire da L’uomo dei sogni. «Qualsiasi cosa facciamo, voglio evitare di complicare le cose».

Costner tende a presentarsi come un ammiraglio: un uomo abituato a essere ascoltato e obbedito. In compenso, è straordinariamente gentile con i colleghi attori. Uno dopo l’altro, li ha presi da parte, parlando loro con estrema delicatezza. «Fammi vedere quella piccola reazione nel vederlo», ha chiesto a Dickey, a proposito del ragazzo sul carro. «Tira fuori quella sottile emozione, quasi impercettibile, che solo tu sai esprimere». Le ha dato una pacca sulla spalla, poi ha pronunciato un’ultima battuta di incoraggiamento: «Niente prigionieri».

Era finalmente pronto a registrare la scena. «Provate ad ascoltare tutto in una maniera nuova», disse ai membri del cast riuniti, nel breve silenzio del set. «Non è cambiato nulla. Eppure, cambia ogni volta».


Una delle prime battute che Kevin Costner pronuncia in Bull Durham – Un gioco a tre mani è: «Sono troppo vecchio per simili stronzate». A quel tempo, Costner aveva appena concluso la parte iniziale della carriera con una notevole serie di successi: Silverado (1985), Gli intoccabili (1987) e Senza via di scampo (1987), tutti film molto fortunati con lui nel ruolo di protagonista.

Nonostante fosse giovane e agli esordi sul grande schermo, c’era già in lui qualcosa che lo rendeva, in un certo senso, troppo maturo per certe sciocchezze. «Non gli è stato regalato nulla», ci ha tenuto a dire Shelton. «Quando si cresce senza un cucchiaio d’argento in bocca, ci si ritrova prima a fare i conti con la vita. Lotti per tutto. E questo è qualcosa che ci accomuna. È sempre una lotta».

Costner, cresciuto in una famiglia conservatrice della California che si spostava spesso a causa del lavoro del padre nel settore dei servizi pubblici, si è avvicinato tardi alla recitazione. Era un ragazzo atletico, ma basso e consapevole della propria condizione. I continui trasferimenti in nuove scuole superiori gli hanno fatto smarrire la fiducia in se stesso. «In quegli anni ho perso gran parte della mia sicurezza», mi ha confessato, «e ho quasi perso me stesso». Ha passato l’adolescenza a seguire a pappagallo le opinioni dei suoi genitori. «Non riuscivo a esprimermi contro la guerra», ha spiegato. Il fratello era in servizio militare. «Ho cominciato a scrivere un intero libro su mio fratello in Vietnam», ha rivelato. «Ho iniziato e poi mi sono fermato».

Al college, presso la California State University di Fullerton, non è stato un granché come studente. «Non avevo ancora trovato la mia voce», ha ammesso. «Ora sono circondato da persone che sanno di voler fare l’architetto, conoscono cosa vogliono studiare, mentre io non riuscivo a capire quale sarebbe stata la mia strada e me ne rendevo conto. Sono andato a lavorare sulle barche da pesca in estate e ho capito di dover ascoltare la mia voce e non preoccuparmi di compiacere i genitori. Ora, qualcuno potrebbe sorridere, perché non gliene è mai fregato niente del parere di mamma e papà. Beh, a me da adolescente importava. Avevo certamente i miei sogni, ma li stavo reprimendo».

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Costner ha iniziato a prendere lezioni di recitazione e a correre in giro alla ricerca di qualche ruolo. Per un certo periodo ha lavorato come direttore di scena ai Raleigh Studios di Hollywood. Quando finalmente ha avuto successo, sembrava pronto ad affrontarlo, quasi ci avesse già fatto l’abitudine. «Non avevo quella sensazione giovanile di sentirmi fuori dalla realtà a causa dei miei precoci traguardi, ero preparato mentalmente e non avevo bisogno di farmi di cocaina sul cofano dell’auto», ha spiegato. Per lo più lavorava, nel tentativo di recuperare. «Tutti i colleghi con cui ero in competizione avevano ottenuto migliaia di riconoscimenti: Mel Gibson, Richard Gere, Nicolas Cage, Timothy Hutton e Sean Penn. Erano molto più avanti di me, facevano film da sette, otto anni». Quando ha deciso di dirigere Balla coi lupi, dopo un periodo relativamente breve nel settore, la gente gli diceva che stava bruciando le tappe troppo velocemente. Lui rispondeva, «non è stato affatto veloce per me. Semmai sono in ritardo». Eppure, l’industria del cinema era scettica. Alcuni si riferivano a Balla coi lupi come a un “Kevin’s Gate”, dopo il noto disastro hollywoodiano del film Heaven’s Gate, I Cancelli del cielo. «In realtà non mi ero nemmeno reso conto delle critiche e delle frecciate che mi venivano rivolte per il solo fatto di voler girare un film a cui mi ero ripromesso di dedicarmi», ha raccontato Costner. Anche se ha continuato la sua lunga corsa come star del botteghino negli anni ‘90, da JFK – Un caso ancora aperto, a Guardia del corpo e Tin Cup, è stato risoluto nel seguire il proprio istinto e le sue idee. In rapida e masochistica successione, ha lavorato a Waterworld, uscito nel 1995, un kolossal post apocalittico assai costoso che ha rilanciato l’appellativo di “Kevin’s Gate” ed è diventato famoso per la produzione gonfiata e le cattive vibrazioni, e poi L’uomo del giorno dopo del 1997, un’altra gigantesca produzione post apocalittica, questa volta prodotta e diretta da Costner. Ogni tanto scherza sul fatto che avrebbe dovuto passare quegli anni «a fare Bull Durham – Un gioco a tre mani 3 e 4», e all’epoca era spesso insoddisfatto.

Eppure, afferma di ripensare a quei titoli senza rimpianti ed è con lo stesso spirito che si è imbarcato in Horizon, un’altra impresa apparentemente troppo complessa, una sfida alla quale non ha saputo resistere. «Sentivo il tempo scivolare via», mi ha detto. Aveva chiamato uno dei suoi figli Hayes, come il personaggio della sceneggiatura di Horizon. «Ora ha 15 anni», abbastanza per essere scritturato nel film in una parte chiave. «Pensavo che la mia finestra temporale si stesse restringendo troppo, fino a negarmi la possibilità di avere una parte di rilievo», ha aggiunto Costner. «E così ho praticamente “bruciato le mie navi”». Ha continuato, cercando di assicurarsi che avessi capito il riferimento storico: «Come Cortés, siamo fottutamente giunti al medesimo punto. Ho intenzione di portare in fondo l’impresa. E ho ipotecato la proprietà. Adesso ti è più chiaro?».

Inoltre, c’è un’altra verità. A dispetto del lavoro costante e redditizio che aveva in Yellowstone, sentiva la necessità di un impegno, come ha dichiarato. «Siamo passati attraverso il COVID, poi ho ripreso l’attività e in un paio di momenti ho capito che desideravo lavorare un po’ di più, per vari motivi. Solo per il mio istinto di agire come finanziatore, tra virgolette. Avevo bisogno di fissare un paio di obiettivi».

Costner ha guadagnato un sacco di soldi in carriera, ma ha anche speso moltissimo. «Nella vita ho avuto degli alti e bassi pazzeschi», ha dichiarato. In qualità di membro di una società chiamata Ocean Therapy Solutions, ha contribuito a sviluppare una tecnologia che separa il petrolio dall’acqua; in seguito, durante la fuoriuscita di petrolio dalla Deepwater Horizon, ha venduto diversi dispositivi alla BP. «Ci ho investito 20 milioni di dollari», mi ha riferito. «Sentivo che avremmo potuto gestire le fuoriuscite di petrolio in modo diverso. Ci credevo. Sapevo di poterlo fare e ho dimostrato di poterci riuscire». Tuttavia, quel tipo di tecnologia non ha mai preso piede. «Ho fatto un mucchio di soldi? No», ma ne è comunque orgoglioso. «Non ho passato l’esistenza a cercare di far crescere il mio gruzzolo», ha ribadito. «Credo che potrei comprare appartamenti e McDonald’s e un sacco di cose e crescere, crescere, crescere», invece, preferisce ipotecare le proprietà per realizzare un film che sembra non interessare nessuno oltre Kevin Costner.

«È il messaggio che desidero trasmettere ai figli con il mio esempio: faccio ciò in cui credo», mi ha rivelato. «Ho paura come tutti gli altri. Non voglio uscirne umiliato». La sua famiglia, però, aveva una casa e non l’avrebbe persa. Ha menzionato la proprietà sulla spiaggia che aveva ipotecato per Horizon. «Voglio dire, va bene, forse la perderò. Ma la vera domanda a cui rispondere è: “Ho perso me stesso?”».


Yellowstone, la serie tv in grado di restituire a Costner una ribalta che da tempo non aveva più sulla scena artistica, ha esordito nel 2018 sull’allora poco conosciuto Paramount Network. A sorpresa, si è rivelata un successo con episodi che hanno attirato fino a 10 milioni di telespettatori. Nello show, Costner interpreta John Dutton III, un fiero e pericoloso proprietario terriero il cui desiderio di conservare i suoi possedimenti e lo stile di vita che rappresenta porta a una serie di conflitti crescenti e tragici all’interno e all’esterno della propria cerchia famigliare. Yellowstone era una soap, ma al contempo riusciva a mostrare un mondo, radicato nel moderno West, che non era stato mai rappresentato in televisione prima di allora. In Costner, la serie ha trovato una perfetta corrispondenza: i cavalli, i valori di un tempo, lo stoicismo, tutto ciò che lui oggi sa trasmettere semplicemente apparendo, anche se lo ha fatto in negativo, nelle vesti di un padrino complice di violenza e morte in nome di quanto possiede. Con il passare degli anni, la serie è cresciuta, fino a dare vita a numerosi spin-off e a un elaborato merchandising. Costner si è trovato di nuovo al centro di un fenomeno gigantesco. Finché, improvvisamente, non lo è stato più.

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Solo all’inizio dell’anno scorso si è cominciato a parlare di una potenziale spaccatura tra Costner e il creatore di Yellowstone, Taylor Sheridan, e i produttori della serie, Paramount e 101 Studios. Lui, notoriamente in contrasto con i registi e i responsabili degli studios, non ha fatto mistero della propria intransigenza in passato e, quando la stampa ha iniziato a occuparsi della situazione, si è parlato di richieste irragionevoli in termini finanziari e di programmazione, nonché di pretese di controllo creativo. Finora, si è imposto di non confutare pubblicamente tali affermazioni con alcun tipo di dettaglio. «È la mia etica western», ha spiegato. «Sono stato zitto sull’intera faccenda e ho preso una bella batosta là fuori. I miei compagni di cast sono confusi. La troupe era disorientata».

A sua detta, il problema reale avuto con lo show è stato per certi versi più semplice di quanto si sia voluto far credere: voleva lavorare e si sentiva ostacolato in questo suo desiderio.

Quando ha iniziato a girare Horizon, immaginava che la saga fosse un complemento di Yellowstone, una serie in cui si aspettava ancora di tornare al momento della mia visita al set del film nel 2022. «Ho sempre sognato di realizzare il mio progetto», ha detto Costner, «e stavo facendo Yellowstone. Amo Yellowstone». Mi ha raccontato di essere andato a Cannes, prima che la serie venisse presentata negli Stati Uniti, per proporla a potenziali acquirenti e inserzionisti in Europa. «Siamo letteralmente volati lì e ho parlato con tutti, da Builders Emporium a Chili’s. C’erano 400 persone. E ho dichiarato: “Sì, voglio fare questo show chiamato Yellowstone”. Proprio perché lo adoravo, sono andato lì a dare una mano. Taylor aveva una visione davvero grandiosa su ciò che era e sono andato con lui. Ho aiutato quella serie in centinaia di modi diversi».

Costner ha dichiarato di essersi impegnato a tal punto in Yellowstone da rinegoziare il suo contratto originale di tre stagioni per arrivare, addirittura, a un totale di sette. Ha però aggiunto che passava sempre più tempo ad aspettare, a tenere in sospeso la produzione e a vederla poi ritardata per vari motivi, tra cui il COVID, lo sciopero degli sceneggiatori e ulteriori disaccordi sulla programmazione. «Molto raramente abbiamo iniziato quando abbiamo stabilito di farlo e poi non è stato possibile finire nei tempi previsti. E a me andava bene così. Davvero. Mi andava bene, ma non era una situazione che potevo continuare a sopportare». Aveva la sensazione di perdere altre opportunità di lavoro. Sentiva di non essere in grado di organizzare e seguire un preciso programma per Horizon.

A quel punto la produzione di Yellowstone ha proposto di dividere la quinta stagione in due parti. «Il loro grande piano era di farne subito otto episodi e poi altrettanti in autunno», ha illustrato Costner. «Io feci presente: “Ho un accordo per realizzare Horizon. Ci sono persone e soldi”. Probabilmente erano convinti che non sarei riuscito a montarlo, ma non mi interessava davvero il pensiero degli altri».

Così Costner mi ha spiegato in modo ancora più dettagliato il tira e molla avuto con la produzione, le date in cui avrebbe potuto girare Yellowstone e quelle da dedicare a Horizon. Sostiene di aver offerto una serie di soluzioni per realizzare la seconda metà della quinta stagione. Tuttavia, ha detto, «i copioni non sono mai arrivati. Non l’hanno ancora girata per quanto ne so. Mancavano i testi e a un certo punto mi hanno comunicato di non avere un finale o qualcosa del genere». Lui propose il suo: «Ho detto: “Beh, se volete uccidermi, o qualcosa del genere. Ho una settimana prima di iniziare. Farò quanto desiderate”». (Un portavoce di Paramount Network ha smentito questa versione in merito alla vicenda).

Costner ha affermato di avere avuto tutta l’intenzione di aiutare Yellowstone: dopo lunghe trattative, si è ritrovato con una settimana a disposizione da dedicare al personaggio, in modo da permettere alla serie di continuare mentre lui andava a girare Horizon. «Qualcuno, invece, ha pensato che volessi lavorare solo una settimana. Così ho letto sulla stampa: “Costner è disposto a lavorare solo una settimana”».

Alla fine ciò che lo ha più amareggiato è stato essere dipinto dai media come l’unico ostacolo al ritorno di Yellowstone. «La grande delusione è che non ho mai sentito Paramount o 101 venire in mia difesa e dichiarare: “Non è vero. Avrebbe continuato per altre tre stagioni”». Secondo Costner la verità era chiara: «Ho iniziato a concedere solo tre stagioni, ho finito per farne cinque e sono rimasto invischiato in una storia che non credo sia mai stata raccontata correttamente da nessuno di loro. Omettevano quanto avevo fatto ed ero disposto a fare». Ha pensato che per Sheridan, Paramount e 101 Studios, nel bel mezzo dello sviluppo di molti altri spin-off e titoli originali sull’universo di Yellowstone, «altri show sono diventati più importanti». E a lui andava bene così. Tuttavia, avrebbe voluto che la storia fosse stata raccontata diversamente. «Mi ha davvero infastidito il fatto che nessuno di loro abbia cercato di mettere in chiaro le cose».

In una dichiarazione inviata via e-mail a GQ, un portavoce di Paramount Network ha scritto: «Kevin è stato una parte importante del successo di Yellowstone. Sebbene sperassimo di continuare a lavorare insieme, purtroppo non siamo riusciti a trovare una finestra compatibile con lui, con tutti gli altri talenti e le nostre esigenze produttive, al fine di andare avanti. Rispettiamo il fatto che Kevin abbia dato priorità alla sua nuova serie di film e gli auguriamo il meglio».

Ho chiesto a Costner se tornerà a Yellowstone.

«Beh, io e Taylor conosciamo le condizioni del mio ritorno, e resteranno tra noi», ha risposto aggiungendo che, per quanto lo riguarda, le sue richieste erano ragionevoli. «E se non riusciamo a venirne a capo, è perché in fin dei conti per loro sono irragionevoli o qualcosa del genere».

Costner ha detto di sentirsi ancora legato a John Dutton. «Amo quel personaggio. Adoro quel mondo. Sono uno che si basa molto sui copioni. E se mancano, ho bisogno di sapere quale strada intendono percorrere. Voglio assicurarmi che il personaggio sia in linea con quello che è importante anche per me. Ed è piuttosto semplice. Si tratta solo di una questione tra me e Taylor. Riusciremo mai a risolverla? Non lo so».

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Gli scioperi di Hollywood del 2023 gli hanno comunque impedito di lavorare a entrambi i progetti. Appena sono finiti, non c’era più Yellowstone su cui tornare a contare, a causa delle questioni irrisolte tra Costner e la serie. «Cosa dovrei fare? Non sono un cane che aspetta nel vialetto senza sapere quando qualcuno tornerà a casa. Io voglio saperlo. E sapevo anche che il loro universo era molto grande. Dunque, ho deciso di non stare seduto nel vialetto, ma di tenermi occupato e di essere disponibile quando potevo. Alla fine, la cosa non è andata in porto».


La casa di Costner a Santa Barbara è situata a ridosso del mare. Si tratta di un moderno edificio bianco dotato di piscina, prato verde, qualche palma e, sullo sfondo, l’oceano. Quando sono andato a trovarlo, indossava un elegante dolcevita nero, pantaloni chino e occhiali. I suoi capelli erano più biondi di quanto ci si potesse aspettare. A quasi 70 anni, l’unica evidente concessione all’età era che di tanto in tanto mi chiedeva di parlare più forte o di ripetere. Ci siamo seduti nella dependance che possiede accanto alla casa in cui vive. Della musica si diffondeva dolcemente da un luogo che nessuno di noi due era in grado di identificare, e lui ha chiesto aiuto a un assistente tramite messaggio con il cellulare. «Approfitta per farmi le domande più semplici mentre c’è la musica», mi ha suggerito.

Ha indicato l’oceano con un ampio gesto affermando: «È un vero habitat naturale. I miei figli praticano surf. Facciamo immersioni, snorkeling, pesca subacquea e con la fiocina. Questo luogo ci sostiene e ha sostenuto loro. Hanno trascorso l’infanzia esplorando le pozze di marea e sanno riconoscere i polpi per nome». Prima era solo la residenza dove passare i weekend, poi, circa vent’anni fa, hanno deciso di trasferirsi qui definitivamente. «Per me Los Angeles, anche se è bella e la capisco, era solo pranzi e cene», ha spiegato Costner. «Venivo nel weekend e alla fine ho pensato: “Perché continuo a rientrare a Los Angeles la domenica sera?”».

Costner ha anche una proprietà ad Aspen e un appezzamento privato lungo la costa qui vicino, che è il luogo ritratto nelle foto che accompagnano questa storia. Si tratta del terreno sull’oceano che ha ipotecato per realizzare Horizon, l’affare su cui Costner mi aveva detto che sua moglie aveva scherzato («Sì, un altro affare così e siamo in bancarotta») ai tempi del nostro incontro sul set nel 2022. Quando gli ho chiesto di questa battuta della sua ormai ex moglie, mi ha risposto che aveva cercato di fare un po’ di autoironia. «Sì, non è stata lei a dirlo. È una battuta utile a sdrammatizzare, per indicare che sono consapevole di quanto la situazione possa sembrare un po’ folle».

Non voglio essere banale nel toccare un simile argomento, ma quando ho saputo che vi siete lasciati, mi sono chiesto se le due cose fossero collegate. Esiste un legame?

«No, non sono collegate», mi ha risposto.

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Non lo chiedo in modo grossolano, dal punto di vista finanziario. Ma intendo nel senso che tu sei Achab, vai in giro a dare la caccia a una balena, e mi viene da chiedere se ti è costato qualcosa.

«No, non credo», ha ribadito. «Ma io sono Achab». Così ha iniziato a parlare dell’adattamento di Moby-Dick di John Huston del 1956, con Gregory Peck. «Uno dei film più spaventosi che abbia mai visto», ha commentato. Costner voleva farmi capire la profonda differenza esistente tra lui e quel personaggio che lo aveva tanto terrorizzato da piccolo. «La balena bianca ossessionava Achab fino al punto che avrebbe portato tutti a fondo con lei. Io non porto nessuno a fondo con me. Mi assumo il rischio da solo».

Il divorzio di Costner con Christine Baumgartner è stato il suo secondo, dopo lo scioglimento del primo matrimonio con la fidanzata del college, Cindy Silva, nel 1994. Non era propenso a parlarne. Tuttavia, ha ammesso che tra i rischi assunti con Horizon, la sua situazione familiare e quella lavorativa, tutto gli pesava addosso non poco. «Davvero tanto. Sono questioni molto serie che richiedono la mia attenzione. Devo affrontarle ogni giorno, sia a livello emotivo sia, in un certo senso, storico. E poi ci sono le necessità quotidiane dei bambini. Non starò a farti un elenco dettagliato, mi fermo qui. È mio compito prestare attenzione a queste cose e occuparmene».

Costner ha fatto riferimento a un altro film: Toro Scatenato, la famosa battuta che il personaggio di Robert De Niro, Jake LaMotta, dice a Sugar Ray Robinson. «Un momento grandioso: “Non mi hai mai buttato giù, Ray. Non mi hai mai abbattuto”. La vittoria si raggiunge anche con questo spirito. Non perdere noi stessi. Ho dato grossi morsi alla vita e la vita ha dato grossi morsi a me, giusto? Non mi perderò perché sono stato ferito. Lo sono stato, ma non mi perderò. E quanto mi impegnerò a fare dipende dal fatto che ora stiamo inseguendo la balena bianca, ok? Perciò non posso lasciare andare la corda, non importa quanto il mio cuore sia a terra, non importa quanto possa essere distrutto ogni giorno, non posso lasciare andare la corda perché se lo faccio, Horizon si fermerà. Non è qualcosa di più importante rispetto a tutte le altre cose della mia vita, ma sono responsabile nei confronti di quanti hanno investito insieme a me, delle persone che credono in me, di chi vuole lavorare in tutti e quattro i film della saga ed è disposto a rimandare altri lavori per aiutarmi a portare a termine il progetto. Perciò, non importa quanta acqua mi colpisca in faccia, non posso mollare la corda».

Ha ribadito il concetto, quasi a incitare se stesso: «Tira. Non limitarti a tenere duro, cazzo. Tira anche tu questa fottuta corda». Nondimeno, ha riconosciuto, «ora mi trovo in una situazione di pericolo, come non mi era mai capitato». Ha indicato con un gesto verso l’alto, per mostrare dove si trovava, e poi ha puntato in direzione del pavimento, immaginando le fauci digrignanti di spietate creature fantastiche: «Ci sono, dannazione, alcune bestie... Là sotto ce ne sono otto che mi vogliono. E se cado, diventerò un batuffolo di pelo; quindi, sono quassù, sospeso. Sono più in bilico di quanto sia mai stato».

Il momento della verità arriverà presto. Il motivo per cui non si proiettano due film nella stessa estate è che se il primo fallisce, andrà male anche il secondo: non c’è possibilità di cambiare rotta o di riprendersi. «Non è mai stato fatto», mi ha detto Costner. «Ma io sono un po’ anticonformista. Mi sono piaciuti tutti e quattro. Sono già scritti. Non sto improvvisando nulla. Per me una storia non è finita finché non è finita. Ecco perché ho deciso di realizzarli entrambi».

Gli ho chiesto di proiettarsi nel tempo a settembre, quando entrambi i film saranno usciti e il giudizio sarà definitivo. «Beh, se ci penso, mi blocco», ha risposto. «Sto girando il Capitolo 3 proprio adesso. Ero in giro a fare dei sopralluoghi. Non voglio restare fermo. Inoltre, settembre non determinerà la mia vita; dunque, vaffanculo. A definirla sarà la gente che vedrà Horizon tra un decennio. Ne sarò io il proprietario e qualsiasi guadagno, sia tra 10, 20 o 30 anni, sarà mio e dei miei discendenti».

Ha dichiarato di essere determinato a realizzare il terzo e il quarto capitolo del film, nonostante non siano ancora stati finanziati: «Si realizzeranno comunque, anche se mancano i finanziatori». Al momento si stava guardando intorno, alla ricerca di qualche ricco intenzionato a fare un altro glorioso giro con Kevin Costner. «Ho la valigia pronta, qui in strada, e mi domando: dove siete tutti voi intrepidi e facoltosi miliardari? Se sento la parola miliardario un’altra volta, mi vien da vomitare».

Costner ha iniziato a picchiettare sul tavolino che ci separava per enfatizzare le sue parole. «Mi serve qualcuno che sia impulsivo, emotivo, pieno di soldi e voglia di andare nel West. È il momento della verità: vediamo chi è davvero disposto a rischiare. Perché ho investito tutto nel film». Poi mi ha proposto di fare una passeggiata. Siamo usciti all’aperto attraverso una porta scorrevole, sull’erba, nella brezza dell’oceano. Ci siamo soffermati a contemplare il mare: uno scenario infinito e perfetto che Costner stava lasciandosi di nuovo alle spalle per girare altri due film nelle terre selvagge dello Utah. Perché non ritirarsi, semplicemente? Gli ho chiesto. Lui ha risposto di averci pensato. «Ma mi ritirerò in luoghi dove mi piace stare. Sto preparando un film a Tahiti. Non suona male, vero?».

Ha sorriso. «No, penso sempre a cosa significhi la vita per me. E credo di aver dimostrato che andrò per la mia strada. Mi piace pensare di avere il diritto di cambiare in qualsiasi momento. Adesso però, in questo preciso istante, non posso mollare la corda. Troppe cose andrebbero in frantumi. E non importa come mi sento, giusto? Non ha importanza. Anche se il mio cuore è a pezzi, non conta. Bisogna tenere duro».


Un mese dopo, Kevin Costner era di nuovo nello Utah, alla ricerca dei luoghi adatti alle riprese. Nei copioni di Horizon, ogni pellicola termina con un teaser, una serie di sequenze dinamiche, o parti di scene, che anticipano quanto avverrà nel capitolo successivo. Il Due era finito, ma aveva ancora bisogno di questo montaggio finale e il tempo stringeva. Giugno era alle porte per chiudere il film; perciò, Costner e i suoi capi reparto erano volati a St. George, all’estremità sud-occidentale dello Stato, per trovare rapidamente le ultime scene necessarie a concludere il Due e a iniziare il Tre. In un momento di tranquillità, lontano dalla sua troupe, gli ho chiesto come stessero andando le cose con i finanziamenti del prossimo capitolo, dato che l’ultima volta in cui ci eravamo parlati non erano ancora stati trovati. Lui ha sorriso e, con un tono basso, ha confessato: «Nemmeno ora ci sono». La sua fiducia, però, non vacillava. «So che ce la farò», ha affermato convinto. Il come rimaneva un mistero.

Era una mattina ventosa e splendida. In macchina c’erano Derek Hill, lo scenografo, e J. Michael Muro, il direttore della fotografia. Costner viaggiava sul sedile posteriore accanto a una donna di nome Joyce Kelly che lavorava per l’ente del turismo locale. A circa 20 minuti dalla città, ci siamo fermati ai cancelli di un parco statale per pagare l’ingresso. La guardia forestale ha chiesto: «Qualcuno ha più di 65 anni?».

«Io ne ho di più», ha detto Costner. «Che cazzo!».

Dopo avere parcheggiato, siamo usciti sulla sabbia rossa. Costner indossava un cappello da cowboy, una giacca sportiva e degli stivali. Si è arrampicato su alcune rocce di arenaria, cremisi nella luce del mattino, affacciate su una valle sottostante che, nel suo film, intendeva riempire di mucche. Lui e Muro hanno iniziato a fissare nella mente la scena immaginaria: un ricco allevatore di bestiame, interpretato da Giovanni Ribisi, è intento a sorvegliare la sua mandria e poi incontra qualcuno che non si aspetta di rivedere.

Poiché ci trovavamo in un parco statale, la quantità di troupe ammessa sarebbe stata limitata. «Fare un film è come un salmone che nuota controcorrente», ha detto Costner. «C’è sempre qualcosa che cerca di ucciderlo». Tornando alla macchina, però, era euforico. «Riesco a sentire la musica», ha detto a Muro. «Riesco davvero a sentire la musica».

Mentre attraversavamo lo Stato da parte a parte, Costner guardava le foto dei suoi cani sul telefono o dava lezioni di storia: sulle carovane, i Comanche, i commercianti europei. Ha raccontato di avere suonato con la propria band, i Modern West, a Syracuse, dove, in un museo, ha scoperto la lettera di un muratore italiano indirizzata alla famiglia in Italia. «Scrive questa bellissima lettera su cosa non fare, dove andare, come arrivare a Buffalo, New York, e poi proseguire verso “un posto chiamato Cleveland”. È quello che ha scritto. “Un posto chiamato Cleveland”. E poi l’ultima riga diceva: “Portate gli attrezzi”. Non so perché, ma quelle semplici frasi mi hanno commosso. “Un posto chiamato Cleveland. Portate gli attrezzi”».

In ogni luogo, nonostante gli ampi panorami montani, le verdi pianure primaverili, i canyon e le impressionanti pareti rocciose, Costner dedicava la propria attenzione ai primi sei metri di terreno fuori dall’auto osservandolo con attenzione: «Sto cercando delle punte di freccia», ha infine spiegato. «Non ne ho mai trovata una». Una lunga pausa. «Mi dispiace».

Dopo pranzo, ci siamo fermati al futuro sito di Territory, lo studio appena fuori città che lui ha contribuito a costruire nella zona. Giganteschi camion pieni di terra e bulldozer stavano trasformando una vasta mesa deserta in qualcosa che presto avrebbe ospitato edifici per uffici, aree di parcheggio, palcoscenici, un ristorante, una verdeggiante altura dove organizzare concerti e proiezioni cinematografiche. Al momento c’è solo sabbia.

Costner si è fermato lungo il crinale e ha provato a immaginare la scena di uno scontro a fuoco, descritto nella sceneggiatura di Tre, vicino all’ estremità della mesa. Si arrampicava su e giù per il pendio a strapiombo, cercando di valutare da dove potessero arrivare i cavalli, quali angolazioni potesse avere la macchina da presa. La singolare precisione, l’impegno totale e inconsapevole in cui era immerso, lo rendevano simile a un artista outsider all’opera: un uomo che, nonostante gli anni trascorsi a Hollywood al centro della scena, era qui fuori, nel bel mezzo del nulla, a lavorare su una strana opera d’arte americana che era determinato a realizzare. Era in grado di vederla in ogni suo dettaglio, anche se gli altri non ci riuscivano.

Nel tardo pomeriggio, però, ha ammesso di non essere più in forma. «Sto finendo la benzina», ha dichiarato. C’era ancora un altro posto che voleva visitare, vicino all’aeroporto. Abbiamo guidato fino a lì, oltre le decine di complessi edilizi in costruzione intorno a St. George, destinati a coprire rapidamente il paesaggio che Costner avrebbe tentato di immortalare prima della loro definitiva scomparsa. La nostra auto si è fermata in un campo. «Stiamo per cogliere un ultimo scorcio western», ha sentenziato indicando una strada in via di realizzazione che si stava avvicinando pericolosamente allo sfondo della sua inquadratura. Dopo essere sceso dall’auto con uno stanco “oh fuck”, si è fermato a una certa distanza a fissare in silenzio l’erba giallo-verde e le montagne grigiognole più in là. Quella sera, ha tenuto una proiezione del secondo capitolo all’interno di un cinema annesso a un desolato centro commerciale di fronte a un Jimmy John’s, senza il teaser del Capitolo Tre che è ancora da girare. Tra il pubblico c’erano la sua troupe e un gruppo di persone del posto che, in un modo o nell’altro, avevano aiutato la produzione. Costner indossava stivali da cowboy, jeans e scarpe Oxford e ha trovato un microfono per un breve discorso. «Vedo così tante persone che non hanno pagato», ha scherzato. «Sappiate che ho finanziato di tasca mia questo film. Non è affatto una partenza facile per me».

Ha aggiunto che non voleva sentire nessuno parlare durante la visione. Si è scusato con le persone che non avevano ancora visto il primo capitolo e ha tentato di fare un rapido riassunto della trama. A suo avviso, il film parla di tutte le persone che si possono incontrare nel West: chi sono, cosa vogliono e cosa fanno per ottenerlo. «È un film sulla natura della gente, sui loro percorsi. Perciò chiudete gli occhi e, appena inizia, lasciatevi trasportare nel vostro personalissimo viaggio dentro Horizon».

Soprabito personale, maglione Levi’s Vintage Clothing, calzini Bottega Veneta


CREDITI DI PRODUZIONE
Foto di Fanny Latour-Lambert
Styling Jon Tietz

Grooming: Francisco X. Perez @ Leslie Alyson
Tailoring: Yelena Travkina
Set design: BG Porter @ Owl and the Elephant
Produzione Patrick Mapel @ Camp Productions