I Take That dal vivo ci insegnano a invecchiare con stile

Il concerto del gruppo inglese dimostra che c'è vita dopo le boy band. A patto di chiamarsi Gary Barlow, Howard Donald e Mark Owen, e di aver scritto canzoni come Shine e Patience
I Take That dal vivo ci insegnano a invecchiare con stile
CHIARA PASQUALINI

Forse non è un caso che alla Cavea dell'Auditorium Parco della Musica, per Roma Summer Fest, in una settimana si sono esibiti i Blue, prima, e i Take That, ieri. Sono due facce della stessa medaglia, quella delle boy band esplose tra gli anni novanta e i primi duemila, eppure oggi seguono percorsi opposti. Ok, è facile tirare in ballo la questione delle copie e dell'originale: alla fine i ragazzoni di A chi mi dice sono venuti fuori nel 2001, con il mercato saturo, e non hanno aggiunto chissà cosa, così il loro live sembra una puntata di TRL, tra basi registrate e il resto, senza capire bene dove finisca la nostalgia e cominci il meme, negli occhi di chi guarda; invece i Take That, quel mondo lì, l'hanno inventato, al netto del peccato originale ‒ li ha messi insieme un produttore discografico avveduto, nel 1990, su modello dei New Kids on the Block, veri pionieri ‒ e l'essere un prodotto di plastica, spesso per ragazze adolescenti che oggi hanno figli, e con i mariti (appassionati pure loro, si vede) riempiono la platea. Ma i Take That, in ogni caso, sono proprio un'altra cosa, in tutto. Giocano un campionato a parte, e questo è un live serissimo, per tutti, non solo per chi li adorava all'epoca.

Anche rispetto ai Backstreet Boys, nati subito dopo, che hanno monopolizzato quell'immaginario e adesso spingono, anche nei live, sulla celebrazione, sul non essersi mossi, Gary Barlow, Howard Donald e Mark Owen ‒ prima c'erano anche Robbie Williams, ovviamente, che nel 1995 uscì dal gruppo decretandone la prima fine, e Jason Orange, che ha partecipato alla reunion del 2005, che dura tutt'ora, ma che dal 2014 si è fatto da parte ‒ sono gli unici ad aver preso una boy band come e ad averla fatta, davvero, crescere. Come? Con un concerto che non rinnega niente, ma che è un vero concerto pop, con un allestimento che spettacolarizza il giusto, tra una scala per entrare sul palco, due grandi tamburi ai lati e una band che suona tutto e bene insieme a loro, che si passano pure chitarre e pianoforte. Hanno imparato a suonare, nel frattempo. Non scimmiottano il passato, pur portandosi bene i cinquant'anni a testa non si vendono come supergiovani, le citazioni ai balletti che furono sono ai minimi, solo come remake, e più che altro, con un'aria e alcune coreografie quasi da musical, c'è l'idea di voler costruire qualcosa che abbia senso, qui e ora.

Certo, le hit ci sono e l'ora e mezzo di rito è tirata, dalla ballatona A million love songs a Pray, fino alla cover di How deep is your love dei Bee Gees, ma anche Patience e Shine, le canzoni del ritorno, con cui con umiltà si sono messi sulla scia della grande musica leggera inglese, prendendosi un'altra generazioni, pur con meno clamore, uscendone vincitori. Ma il tema è il modo in cui tutto ciò, sul palco, viene ripercorso, e quindi con un po' d'ironia, arrangiamenti maturi ma non pretenziosi, tanto storytelling affidato a Barlow (che pur essendo il meno belloccio dei tre è il capofila, il più fascino) con gioie e dolori del gruppo, con classe anche quando si parla di Williams. E poi il rapporto con i fan, a cui i tre ‒ un po' piacioni e con mestiere, tra bagni di folla e frasi al miele per l'Italia, va detto ‒ si concedono in maniera generosa, invitando per esempio la platea ad alzarsi e ad andare sotto il palco. «Ci siamo abituati», sorridono alla sicurezza, che li fulmina. La ragazza che urla «Mark!» per tutto il tempo, invocando le attenzioni di Owen (spoiler: non contraccambiate, troppo lontana), lo fa per salutare un idolo dell'adolescenza, con gratitudine, più che per una venerazione tardiva. Quella, s'intende, non interessa neanche ai Take That, e la chiave è questa.

Come diceva De André, di quell'amore esagerato non resta che qualche carezza, ma è da lì che i tre dimostrano che c'è vita oltre le boy band, ed è migliore e più sincera dell'originale. Parlano ancora le canzoni, certo, ma soprattutto il loro buonumore, la loro carica, la voglia e il sorriso che hanno. Alla fine questa è una storia di redenzione, il gruppo di plastica, per adolescenti, che si spoglia dei pregiudizi, si rimbocca le maniche e prova a costruirsi un percorso suo, più autentico e vero. Non ci sono casi simili altrove, è un gioco di equilibri con il tempo, le mode e la credibilità che però, alla fine, sa proprio di lezione su come invecchiare e lasciare da parte i peccati di gioventù. D'altronde le storie di gruppi così ‒ e Barlow, nei racconti, lo lascia intendere ‒ sono dei romanzi di formazione: con loro la vita è stata prima gentilissima, portandoli in cima al mondo dal niente e regalandogli un sogno, e poi cadere, facendoli cadere, intrappolandoli nel passato, bruciandoli, tirando loro addosso tutto il male che gira nel mondo dello spettacolo. Per questo, il concerto con il sorriso dei Take That del 2024, più che quello del 1994, è importante: perché loro, tutto questo, stavolta se lo sono conquistato.