Donatella Di Pietrantonio: «Le parole sono energia»

Quando scrive, Donatella Di Pietrantonio sceglie le parole con l’attenzione chirurgica che dedica al lavoro da odontoiatra. Nel nuovo libro parla di ferite, e di come la scrittura sia stata una difesa. A noi, per la prima volta, ha confessato una paura. Che ha a che fare con la fragilità
Donatella Di Pietrantonio «Le parole sono energia»
Stefano Schirato

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Questo articolo è pubblicato sul numero 1 di Vanity Fair in edicola fino al 2 gennaio 2024

«Non so per quanto tempo avrò l’energia di scrivere. La scrittura mi risucchia, mi prosciuga».

Basta conservare le energie nella maniera più opportuna, non crede?
«Non ne sono sicura, purtroppo. C’è una probabilità molto superiore alla media che sviluppi la stessa malattia di mia madre, l’Alzheimer. I miei genitori erano cugini, in campagna c’erano i matrimoni endogamici, e questo mi ha portato a ereditare un patrimonio genetico particolare. Ci penso spesso. Senza angoscia, ma ci penso».

Donatella Di Pietrantonio parla lenta, sceglie le parole con cura e, quando si rende conto di aver fatto una ripetizione, si scusa chiedendomi di eliminarla al momento della trascrizione. Nelle risposte di Di Pietrantonio, però, non ci sono errori perché i pensieri che restituisce sono lucidi e chirurgici come i bisturi e le ossivore che maneggia nello studio dentistico dove lavora a Penne, in Abruzzo, il paese di dodicimila abitanti in cui vive. Ne L’età fragile, il suo nuovo romanzo pubblicato da Einaudi, parla della fragilità di tre personaggi ma anche un po’ della sua, che sceglie di condividere in questa intervista per la prima volta.

Nel romanzo Lucia si sente inadeguata nel non capire perché sua figlia piccola pianga: a lei è mai capitato di vivere quel senso di frustrazione?
«Sì, ed è anche per questo che ho voluto riportarlo nel personaggio. Dalle madri si pretende che siano perfette, che abbiano un intuito magico nei confronti dei figli, ma non è così. Le madri possono essere imperfette e, in assenza della parola come tramite, capire cosa provi un figlio non è scontato».

La fragilità e l’imperfezione sono conquiste recenti?
«Per certi versi sì, anche se sono ancora incompiute. Alle donne di oggi chiediamo di far fronte a uno sterminato numero di impegni, ma anche di essere delle ottime madri. Siamo agli albori del consentirci l’imperfezione, e il discorso vale anche per il maschio che, prima di adesso, non si è mai potuto permettere di essere fragile».

Parla di suo padre?
«Veniva da una generazione in cui si pretendeva troppo dalle donne che, come scrivo nel libro, dovevano essere uomini in campagna e femmine in casa. Dopo una giornata passata nei campi l’uomo si riposava, mentre la donna continuava a lavorare come un mulo. Ricordo che mia madre non si permetteva un momento di riposo. Era talmente condizionata e formata al sacrificio che persino d’inverno lavorava a maglia, rammendava. Doveva sempre fare qualcosa di utile per la famiglia».

Lei come reagiva?
«Mi faceva rabbia, perché vedevo il suo essere occupata come una sottrazione dell’amore e delle attenzioni che avrebbe potuto dedicarmi. Mi sentivo trascurata, abbandonata. Sarà per questo che il tema dell’abbandono è molto forte nei miei libri. Mi sembrava di essere sempre seconda a qualcos’altro, di non essere mai la sua priorità. È una ferita che mi porto dietro da tempo».

Ha mai parlato di questo con lei?
«Purtroppo no. Pensavo che prima o poi sarebbe arrivata una sorta di resa dei conti, invece si è ammalata di Alzheimer molto giovane, intorno ai 60 anni. Uno dei miei più grandi rimpianti è non averle parlato in tempo».

Da adolescente ha mai provato ad attirare la sua attenzione?
«Sì, sono stata un’adolescente molto ribelle. Volevo a tutti i costi prendermi i miei spazi, lottavo per le libertà minime. Per uscire, per vedere i ragazzi e le amiche, raccontavo tantissime bugie: era l’unico modo che avevo per vivere. Da piccola ero trascurata perché c’era da fare, e da adolescente ero trascurata perché ormai ero considerata grande e non ero più bisognosa di cure. Sarà anche per questo che in quegli anni ho abbracciato uno spirito politico e militante».

L'età fragile
Donatella Di Pietrantonio


In che modo?
«Nonostante vivessi in un paesino mi informavo molto tramite le letture e la televisione, anche se a Penne negli anni Settanta potevamo fare ben poco. Al massimo dei piccoli cortei in cui camminavamo con un mazzetto di prezzemolo in mano. Avevo, però, un grande desiderio di partecipare alle battaglie di quegli anni: non volevo in nessun modo aderire al modello di donna che vedevo in mia madre».

E che donna cercava di diventare?
«Una che, per esempio, voleva vestirsi come voleva. Quando mio padre me lo impediva, uscivo di casa con la gonna lunga e, dopo la prima curva, me la toglievo svelando la minigonna o i pantaloncini corti. Nell’ambiente contadino in cui sono cresciuta, poi, la donna doveva arrivare vergine al matrimonio, e lo pensava anche mio padre. Io, però, da adolescente non vedevo l’ora di fare le mie prime esperienze sessuali. Leggevo Porci con le ali, Noi e il nostro corpo. Eravamo su fronti lontanissimi».

Il paese le è mai stato stretto?
«Non ho mai pensato di andarmene. Ho, piuttosto, cercato di viaggiare il più possibile, di vedere pezzi di mondo e di restarci in contatto. Ho sempre apprezzato l’altra faccia della medaglia del vivere in paese, quel tipo di relazioni di vicinato e quell’essere parte di una comunità che la città non ha. Poco fa, per esempio, la mia vicina mi ha portato a casa il brodo che prepara ogni lunedì facendone un po’ di più anche per me».

La città suggerisce un’idea di solitudine. Lei la teme?
«Avevo paura della solitudine quando ero piccola perché venivo lasciata spesso da sola. In questo, la scrittura è stata preziosa perché, fin da bambina, era la mia unica difesa possibile, l’unica forma con cui potevo esprimere quello che provavo».

Alla luce di questo, come mai la scrittura non è diventata la strada maestra e ha ripiegato su odontoiatria?
«Perché la scrittura nel mio ambiente era una “mattità”, qualcosa di poco valore così come lo era la lettura. All’infuori della scuola leggere era considerato una perdita di tempo, tant’è che i parenti e i vicini mi rimproveravano quando mi vedevano con un libro in mano. Dicevano che mi rovinavo gli occhi. È per questo che mi sono avviata verso un tipo di lavoro che gli altri potevano comprendere nella sua utilità: i denti prima o poi facevano male a tutti. La figura del dentista aveva un senso, scrivere no».

Che cosa rappresenta la scrittura per lei?
«Un’urgenza, qualcosa che mi sale da dentro con prepotenza. Quando ho scritto L’Arminuta lavoravo allo studio dentistico a tempo pieno: mi svegliavo alle 4 del mattino perché quella spinta era più forte e potente di qualsiasi altra cosa. È per questo che mi chiedo per quanto tempo ancora avrò l’energia necessaria per continuare a farlo».

Se davvero sviluppasse l’Alzheimer, cosa le mancherebbe di più?
«La presenza a me stessa. La cosa più triste che ho visto nei tanti anni di malattia di mia madre era la riduzione graduale dell’autonomia e la dipendenza assoluta dagli altri, sempre più grave e totale. Questo è il motivo per cui, appena avrò un po’ di tempo, farò un testamento biologico, con la disposizione di non andare oltre un certo limite con le cure».

Ne ha già parlato a livello famigliare?
«Ne parlerò con mio figlio, anche se forse come fiduciario sarebbe più giusto coinvolgere la mia dottoressa».

La sento molto serena nel parlare di un’ipotesi così dolorosa.
«È un’eventualità di cui tengo conto senza angoscia, con il realismo del caso».

Teme quello che potrebbe succedere alla sua capacità di scrivere?
«Potrebbe capitarmi quello che è successo a mia madre con l’uncinetto. All’inizio faceva dei lavori accuratissimi che poi, con il sopraggiungere della malattia, sono diventati informi, delle pezze. Immagino che possa capitarmi lo stesso con le frasi, ma preferirei non soffermarmici ora. Intanto posso dire di essere grata alla vita per avermi permesso di finire L’età fragile. Ho vissuto un anno segnato da lutti e perdite: portare a termine questo libro ha richiesto tutta la mia forza, ed è bellissimo vedere che quello sforzo sia stato ripagato».

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