The Bear 3 ci riporta in cucina ma ci lascia affamati

Tra cambiamenti di stile e di attenzione, la serie-fenomeno ci ha un po' deluso. La recensione
the bear 3
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Mentre la nazione ha trascorso gli ultimi due anni a ripetendo un caloroso «Sì, chef!» a The Bear, il dramma di FX dedicato alla ristorazione – e si tratta effettivamente di un dramma, nonostante gli Emmy l'abbiano dichiarata una commedia – alcuni di noi non sono riusciti a unirsi al coro. Lo serie di Christopher Storer ha i suoi meriti: estetica raffinata, interpretazioni convincenti, conoscenza approfondita di un'industria affascinante. Ma è anche una serie confusa (o disattenta) circa le sue intenzioni, riluttante a impegnarsi in qualcosa – tono, tempo, scopo – eccetto l'idea di sé come qualcosa di grandioso.

The Bear (la cui terza stagione ha debuttato su Disney+ ora) è una serie i cui esperimenti formali sembrano a volte più calcolatori che curiosi. In contrasto con l'ambiente umile che la serie vuole sobriamente ritrarre – gente litigiosa che lavora duramente per creare qualcosa di speciale – Storer spinge sempre più per rappresentarla come una successione di fughe poetiche, visive e sonore. Si diverte a giocare con la linea temporale e la prospettiva, non si fa scrupolo di proporre episodi quasi del tutto privi di trama. Ma la premessa centrale della serie non è stata sviluppata a sufficienza per sostenere tutto questo caos. Storer sembra più desideroso di mostrarci cosa sa fare a livello tecnico che di tenere insieme The Bear come un progetto coeso e discreto.

Di che cosa parla The Bear? Le ansie e i dolori del lavoro e della famiglia. L'ambizione e l'alienazione che creano. Sono argomenti di spessore, e a volte la serie li indaga in maniera toccante. Ma in tutti i suoi cambiamenti di stile e di attenzione, The Bear, dopo tre stagioni, non sembra coltivare una grande ambizione. Sfidare le nozioni scricchiolanti della struttura televisiva va benissimo, in teoria. Nonostante la reputazione ormai appannata del suo creatore, Louie ha memorabilmente fatto esattamente questo su una diversa versione della stessa rete 14 anni fa, contribuendo ad avviare una tendenza che ci ha portato a The Bear. Ma quella serie non cercava realmente di raccontare una storia con un arco narrativo; era concepita per essere episodica, non lineare. The Bear vuole essere entrambe le cose. Il risultato è una serie distratta, i cui diversivi indeboliscono ulteriormente la trama centrale.

La terza stagione (seguiranno piccoli spoiler) si apre con un episodio che è essenzialmente un montaggio musicale condito da frammenti di dialogo. Si va avanti e indietro nel tempo, mentre il talentuoso e autodistruttivo chef di Chicago Carmy (Jeremy Allen White) si confronta con gli stress passati e presenti. È perseguitato dal tempo trascorso nelle cucine di altri chef – l'esigente ma gentile Terry (Olivia Colman), un crudele ma brillante supervisore interpretato da Joel McHale – e dal recente crollo durante l'apertura del suo ristorante, The Bear, un tempo un ristorante di carne italiana a conduzione familiare. Il tutto è visivamente notevole, ma un po' opprimente, l'ennesimo gioco di forme che sacrifica la narrazione per l'atmosfera.

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Gli esperimenti isolati sono le parti più forti della terza stagione. L'ottavo episodio, Ice Chips, è essenzialmente incentrata su due dei personaggi secondari –Sugar di Abby Elliott e Donna, la difficile matriarca di Jamie Lee Curtis – mentre affrontano un importante passaggio della vita in primissimo piano, tra litigi e riconciliazioni. La recitazione è ridondante, ma funziona; è il momento clou della stagione. Il sesto episodio, Napkins, è un'altra prova di forza, un delicato sguardo indietro alle origini (più o meno) di un personaggio, caratterizzato da interpretazioni piene di grazia (soprattutto da parte della grande Liza Colón-Zayas) e da una scrittura credibilmente vissuta. L'episodio è stato diretto con maestria dalla co-protagonista della serie Ayo Edebiri.

Quando si torna in cucina, però, la serie si sforza di trovare un senso. Il motivo per cui Carmy si impegna così tanto in questa impresa non è mai stato chiarito in modo adeguato; tutti i problemi che incontra sul lavoro sembrano troppo spesso futili, esagerati. La cucina come metafora della lotta della vita è un concetto potenzialmente intrigante, ma The Bear non fa molto per approfondire l'idea: chiede semplicemente di accettare la premessa e di seguire le avventure manierate con stile di Storer. The Bear è pieno di conversazioni generiche su grandi temi e di interventi musicali malinconici al punto da sfiorare l'auto-parodia. Solo verso la fine di una stagione di dieci episodi vediamo un vero approfondimento della tormentata psiche professionale di Carmy: è apprezzabile, ma arriva troppo tardi.

Quello che viene considerato l'umorismo della serie si riduce nella sostanza ai protagonisti che si scambiano «vaffanculo», una scenetta estenuante ripetuta fino alla nausea. Questi scambi pungenti bucano solo in teoria la bolla del presunto realismo della serie. Si tratta di uno sguardo veritiero sul funzionamento di una cucina ad alta tensione o di un'iperbole caustica? Ancora una volta, The Bear vuole essere entrambe le cose, e finisce per non soddisfarne nessuna.

Forse le parti più illuminanti della terza stagione sono quelle in cui vediamo veri chef alle prese con il loro mestiere. Thomas Keller insegna con trasporto a Carmy come legare un pollo ruspante. Daniel Boulud scivola via con voce soave. Una cena «funebre» in occasione della chiusura di un ristorante amato vede la partecipazione di altri luminari del mondo culinario, che offrono tutti frammenti di saggezza o aneddoti divertenti su che cosa significhi fare il loro strano lavoro. Ecco la verità e l'intuizione a cui The Bear aspira; per un attimo ci lasciamo coinvolgere dall'idea che tutto ciò che vediamo abbia una certa profondità. Ma poi entra in scena Carmy, con i suoi capelli unti e gli occhi lacrimosi. Parte una malinconica canzone folk e si torna alla gravità affettata di The Bear, la cui carne è troppo cruda ed esageratamente condita.