«La parola autostima? Spesso è usata a sproposito. Non presuppone il raggiungimento della perfezione, che è qualcosa che in concreto non esiste».
La psicologa e psicoterapista Stefania Andreoli, ambassador e consulente scientifico del Dove Progetto Autostima, al Vanity Fair Stories, ha spiegato che «in ogni fase della vita c’è sempre qualche aspetto di se stessi e della propria esistenza di cui si può non essere appagati. Magari mi piaccio fisicamente, ma ho un cattivo carattere, oppure ho stima di me, ma non funziono nelle relazioni, o ancora ho un lavoro che non mi appaga: c’è sempre qualcosa per cui si può pensare di non essere soddisfatti. Ma l’autostima è poter fare un bilancio dei punti di forza - tutti ne abbiamo almeno una manciata -, e dei punti di debolezza, fare un consuntivo e dire: “Io sono questo, e i “più” e i “meno” della mia vita possono stare insieme e convivere in modo armonico».
L’autostima si costruisce, come spiega Stefania Andreoli: «Non ci si può aspettare che i bambini ne abbiano: si parte con un panierino vuoto, da riempire». Certo, è necessario fare attenzione alla tossicità dei messaggi di bellezza, «a quelli che richiamano l’idea della perfezione, un concetto astratto, che non c’è nella realtà, e a quelli che propongono l’appiattimento come omologazione». È normale pensare all’autostima «come a un traguardo, alla capacità di saper stare non solo con le proprie cose buone, ma anche con i propri difetti».
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